L’invecchiamento nel mondo del lavoro – rischio di genere

di Sergio Vianello e Stefania Chiesa

pubblicato su “Il Commerci@lista lavoro e previdenza”, settembre 2018

Diverse sono le definizioni per definire ciò che è inevitabile: “l’invecchiamento”; quella di seguito è molto tecnica anche se in quanto tale generalizzata.

“Processo biologico progressivo caratterizzato da cambiamenti che comportano per l’organismo una diminuzione progressiva e continua della capacità di adattamento all’ambiente, riduzione delle riserve funzionali d’organo e d’apparato e conseguentemente riduzione della capacità di sopravvivere ed una crescente probabilità di morire o un’aumentata fragilità”. (G. Ricci, 2013, in Schena F.)

Premesso che il fenomeno dell’ invecchiamento è sicuramente influenzato dalle caratteristiche fisiologiche del lavoratore, non si possono però trascurare gli altri parametri essenziali per renderlo intelligibile:

• la tipologia di attività svolta (alcune particolarmente usuranti, si pensi ad esempio ai lavoratori del comparto edile);

• gli anni di attività (in alcuni casi il percorso lavorativo inizia molto prima di quello contributivo – lavoro minorile e/o in nero);

• il genere (non c’è dubbio che la differenza di genere, con il passare degli anni almeno per alcune attività, possa causare maggiori stress fisici lavorativi alle donne rispetto a quello degli uomini).

Negli anni ’70 sino alla riforma Dini e Amato, l’attività lavorativa di lavoratori “anziani” con età sopra i 60 anni, era limitata a meno del 20%.

Le successive riforme avevano innalzato l’età della pensione di vecchiaia a 65 anni per gli uomini e a 60 per le donne; le pensioni di anzianità invece prevedevano un minimo di 37 anni di contributi dal 1995.

La riforma Fornero, innalzando l’età per la pensione di vecchiaia a 67 anni e quella di anzianità a 42, ha comportato un nuovo aumento dell’effettiva età in cui i lavoratori si ritirano dal lavoro.

A seguito delle riforme pensionistiche negli ultimi anni è aumentato considerevolmente il numero di lavoratori tra i 55 e i 60 anni ancora in attività.

Le modifiche funzionali per organo o funzione, nell’invecchiamento fisiologico in età lavorativa di seguito evidenziate, sono ben indicate in un rapporto esplicitato da Donatella Talini, Tiziana Vai, Carlo Nava nel libro “Aging E-book, il Libro d’argento su invecchiamento e lavoro”:

• capacità visiva: “difficoltà di accomodazione (nella messa a fuoco per fissare oggetti vicini) per rigidità del cristallino e/o indebolimento dei muscoli ciliari, che si compensa con lenti; riduzione di campo visivo (fino a 20-30°) e di acuità visiva; riduzione di percezione della distanza degli oggetti e della distinzione tra colori scuri molto simili; maggior sensibilità all’abbagliamento per cataratta iniziale o per minor velocità degli adattamenti della pupilla alla luce, particolarmente evidente in caso di scarsa illuminazione, di abbagliamento o di caratteri od oggetti molto piccoli”;

• capacità uditiva: “problemi di presbiacusia con difficoltà alla percezione delle frequenze più alte (valutare anche l’eventuale pregressa esposizione a rumore in ambito lavorativo), e difficoltà alla percezione delle comunicazioni verbali in ambiente rumoroso”;

• equilibrio: “alterazioni a livello degli input sensoriali (sindromi vertiginose, deficit vestibolari)”;

• massima forza muscolare: “dai 20 ai 60 anni si perde dal 15% al 50% di forza muscolare, con conseguente ridotta tolleranza allo sforzo intenso acuto, maggiore affaticabilità, maggiore vulnerabilità per sovraccarico biomeccanico cumulativo (ricordiamo che la definizione di sforzo sulla scala di Borg è individuale)”;

• articolazioni: “la funzionalità si riduce lentamente e può rendere difficile il lavorare in posture estreme; oltre i 45 anni si ha un progressivo incremento dell’osteoartrosi, eventuali effetti del sovraccarico biomeccanico cumulativo (coxartrosi, gonartrosi, rizoartrosi…). Minor resilienza al sovraccarico cumulativo muscolo tendineo”;

• apparati cardiovascolare e respiratorio: “dai 30 ai 65 anni la funzionalità respiratoria può ridursi del 40%, con difficoltà in lavori pesanti prolungati e/o in condizioni climatiche o microclimatiche severe; riduzione di portata cardiaca e di capacità massimale durante lo sforzo”;

• disturbi del sonno: “oltre i 50 anni esiste una riduzione quantitativa e qualitativa del sonno con alterazione dei ritmi-circadiani e regolazione del ritmo sonno-veglia. Vi è inoltre una maggiore difficoltà alla tolleranza dei turni notturni”;

• termoregolazione: “maggiori difficoltà nel mantenere la temperatura interna del nostro organismo in caso di variazione significativa della temperatura e degli altri parametri climatici o microclimatici esterni”;

• funzioni cognitive: “aumento dei tempi di reazione e riduzione della memoria a breve termine e dell’attenzione; minore tolleranza alla confusione; necessità di più tempo per pensare e imparare compiti; maggiore difficoltà ad imparare nuovi compiti, soprattutto se complessi; minor tolleranza ad adattarsi al cambiamento e possibile maggiore predisposizione allo stress lavoro correlato (gli studi su questo aspetto danno risultati controversi). Alcuni studi hanno dimostrato che le differenze nella resistenza allo stress sono maggiori tra individui che tra classi di età; a volte gli anziani (in buona salute) percepiscono meno stress dei giovani ma hanno maggiori difficoltà ad adattarsi ai cambiamenti e maggiori preoccupazioni per la perdita del lavoro”;

• malattie: “aumenta l’incidenza e prevalenza di malattie cronico-degenerative (diabete, cardiopatie, tumori), spesso con coesistenza di due o più malattie”.

Ma che influenza hanno su questi fattori i parametri aggiuntivi esposti in premessa, relativi ai lavori usuranti, agli anni di attività e al genere?

Lavori usuranti

Premesso che a seconda delle caratteristiche fisiologiche del soggetto, il lavoro può essere comunque più o meno usurante, vediamo quindi quali possono essere le attività da annovere tra queste.

Per il decreto legislativo 21 aprile 2011, n. 67 “Accesso anticipato al pensionamento per gli addetti alle lavorazioni particolarmente faticose e pesanti, a norma dell’articolo 1 della legge 4 novembre 2010, n. 183” e la legge 22 dicembre 2011, n. 214 “Conversione in legge, con modificazioni, del decretolegge 6 dicembre 2011, n. 201, recante disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici” i lavori cosiddetti usuranti sono i seguenti:

• lavori svolti in gallerie, cave o miniere; i lavori svolti ad alte temperature; i lavori in cassoni ad aria compressa; i lavori nella catena di montaggio; i lavori svolti dai palombari; i lavori in spazi ristretti; le attività di asportazione dell’amianto; le attività di lavorazione del vetro cavo;

• lavoratori a turni che prestano la loro attività nel periodo notturno per almeno 6 ore non meno di 64 giorni lavorativi l’anno; i lavoratori che prestano la loro attività per almeno 3 ore tra la mezzanotte e le cinque del mattino per periodi di lavoro di durata pari all’intero anno lavorativo;

• lavoratori impegnati all’interno di un processo produttivo in serie, i lavoratori che svolgano attività con ripetizione costante dello stesso ciclo lavorativo, i lavoratori addetti al controllo computerizzato della produzione e al controllo qualità;

• conducenti di veicoli, di capienza complessiva non inferiore a 9 posti, adibiti a servizio pubblico.

Ai fini dell’accesso all’Ape sociale e all’anticipo pensionistico, per i lavoratori “precoci” la legge di stabilità 2017 (legge 232/2016) e successivamente la legge di stabilità 2018 (legge 205/17), hanno istituito nuove categorie di lavori particolarmente pesanti o gravosi:

• addetti alla concia di pelli e pellicce;

• addetti ai servizi di pulizia;

• addetti spostamento merci e/o facchini;

• conducenti di camion o mezzi pesanti in genere;

• conducenti treni e personale viaggiante in genere;

• guidatori di gru o macchinari per la perforazione nelle costruzioni;

• infermieri o ostetriche che operano su turni;

• maestre di asilo nido e scuola dell’infanzia;

• operai edili o manutentori di edifici;

• operatori ecologici e tutti coloro che si occupano di separare o raccogliere rifiuti;

• addetti all’assistenza di persone non autosufficienti;

• lavoratori marittimi;

• pescatori,

• operai agricoli;

• operai siderurgici.

Per tutte queste categorie, viene concesso il pensionamento anticipato in funzione al tempo di svolgimento dell’attività senza però fare distinzione di genere.

Il genere nel mondo del lavoro

Il problema del rapporto tra il lavoro e il genere femminile con riguardo all’invecchiamento deve tenere conto del fatto che le donne guadagnano mediamente il 23% di salario in meno rispetto alla stessa posizione occupata da un uomo e mediamente svolgono 2,5 ore al giorno non retribuite in faccende domestiche e nell’accudimento di casa e figli.

Inoltre, essendosi alzata l’aspettativa di vita, spesso si trovano a dover badare anche a genitori anziani.

Tutto ciò influisce sicuramente a livello di stress psicologico e può dunque interessare trasversalmente qualsiasi mansione la donna possa svolgere durante le ore lavorative.

Uno studio a cura di Silvana Salerno, ricercatrice Enea ha evidenziato che dal 2004 al 2008 c’è stata in Italia una perdita di 10 anni di vita sana nel genere femminile.

Alcuni autori si sono dilettati nel riassumere in tabelle gli studi condotti in merito, soprattutto in relazione allo sviluppo di malattie professionali in funzione del genere e il risultato ha evidenziato parecchi scostamenti percentuali tra un genere e l’altro, oltre che evidenziato la differenza di tempo impiegato da una donna rispetto ad un uomo per compiere la stessa mansione.

In taluni casi i minuti al giorno dedicati da una donna erano doppi rispetto all’uomo, in altri dimezzati. In funzione di questa esposizione all’attività le malattie correlat possono variare.

Il progressivo aumento dell’età media dei cittadini, assieme al miglioramento delle condizioni di salute nella terza e quarta età, impongono ai paesi più evoluti l’adozione di politiche sociali e soluzioni di welfare aziendale che siano di concreto sostegno alle persone in età avanzata e alle loro famiglie, per finanziare le quali, in tempi di contrazione delle risorse pubbliche, è necessario il miglioramento costante dei livelli di efficienza ed efficacia produttiva, che non possono prescindere dalla ricerca di soluzioni innovative in grado di favorire l’accrescimento dei margini economici.

Tutto ciò è tanto più vero per l’Italia, che da anni contende al Giappone il primato del paese con il maggior numero di centenari, con prevalenza di donne!

IGNORARE… LA SALUTE E LA SICUREZZA SUL LAVORO

di Sergio Vianello

pubblicato su “Il Commerci@lista lavoro e previdenza”, maggio 2018

Ogni anno, in occasione della festa del 1° maggio si parla diffusamente di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, citando i nefasti numeri di incidenti e morti accaduti l’ anno preedente.

Dal 1° gennaio di quest’anno sono accaduti incidenti che hanno provocato circa 280 morti sui luoghi lavoro (in tutto il 2017 sono stati 634), ai quali si aggiungono i circa 180 decessi occorsi sulla strada, di cui la maggior parte accaduti in itinere.

Le cause, più o meno, sono sempre le stesse: difetti tecnici e organizzativi, scarsa gestione del rischio, gravi lacune nelle procedure di sicurezza, sistemi di controllo di macchine e attrezzature non sufficienti, mancata formazione specifica e/o addestramento necessari per fronteggiare in sicurezza le emergenze.

È bene ricordare che la responsabilità dell’imprenditore per gli infortuni è esclusa soltanto in caso di dolo o rischio elettivo del lavoratore, cioè di rischio generato da un’attività che non abbia rapporti con lo svolgimento dell’attività lavorativa o che non possa far riferimento ad essa in modo razionale, ontologicamente avulso da ogni ipotizzabile intervento e prevedibile scelta del lavoratore (comportamento abnorme).

Ma se la “colpa” viene praticamente sempre ascritta al datore di lavoro, perché lo stesso non fa qualcosa per limitare questo rischio? Forse perché non vuole spendere? Forse perché non gli importa nulla dei lavoratori e pensa solo al profitto? Forse perché gli adempimenti di sicurezza sono solo pura burocrazia generatrice di carta? In alcuni casi forse è vero, ma sono queste le prevalenti cause d’infortunio? Molto spesso la causa è “l’ignoranza”, sostantivo usato in queste brevi note, non in senso offensivo, ma per evidenziare che i datori di lavoro, i lavoratori e in alcuni casi lo Stato stesso, “ignorano” il problema.

Negli articoli 36 e 37 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 “Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro”, Testo unico della sicurezza, il legislatore richiama il datore di lavoro ad assicurare che ciascun lavoratore riceva una formazione e informazione sufficiente e adeguata in materia di salute e sicurezza; orbene, questo preciso obbligo nei confronti del lavoratore, non esiste per il datore di lavoro che invece, proprio per essere in grado di adottare tutte le cautele necessarie per impedire infortuni, ha la necessità di conoscere e approfondire le tematiche di sicurezza che lo vedono coinvolto sempre in prima persona.

Quanti datori di lavoro sono a conoscenza dell’obbligo di nominare uno o più preposti o dirigenti con l’obbligo di formazione? Quanti datori di lavoro sono a conoscenza che la nomina dei propri addetti e/o consulenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro non li esime da responsabilità per “culpa in eligendo” qualora gli stessi fossero stati designati solo per comodità o per le favorevoli condizioni economiche? Quanti datori di lavoro si preoccupano di recuperare i libretti di uso e manutenzione dei propri macchinari e delle attrezzature da mettere a disposizione dei propri lavoratori, illustrandone i contenuti e formandoli sull’utilizzo, personalmente o con l’ausilio di terzi? Purtroppo pochissimi, quasi sempre perché ignorano il problema, pensando che mettendo in atto l’obbligatoria struttura di sicurezza aziendale costituita da lavoratori addetti e consulenti questa sia per loro esimente dal punto di vista della responsabilità, ignorando, che più e più volte le sentenze della Corte di cassazione hanno condannato il datore di lavoro per “culpa in vigilando”, cioè per non aver sufficientemente vigilato sull’efficienza del servizio; se fossero a conoscenza compiutamente di quali sono i compiti e le responsabilità di questo adempimento obbligatorio, non commetterebbero simili errori!

Veniamo ora ai lavoratori, che molto spesso si sentono Superman e rifiutano il fatto che qualcun altro, magari in giacca e cravatta, gli indichi le misure di prevenzione da assumere. “Ho sempre fatto così e non mi è mai successo niente!”: questa è l’affermazione classica di un lavoratore che viene solo invitato a comportamenti più sicuri senza essere “energicamente” obbligato; cambiare abitudini è faticoso e uscire dalla propria zona di comfort è sempre molto difficile.

Provate a far indossare correttamente ai lavoratori una imbracatura anticaduta (chiamata anche impropriamente cintura di sicurezza). Molto spesso la indossano perché obbligati e perché sanno che l’uso è obbligatorio quando sussiste il pericolo di caduta dall’alto. Il problema è che la utilizzano larga, usurata, in alcuni casi nemmeno allacciata; nella stragrande maggioranza dei casi ignorano che, tra l’altro, qualora anche fosse usata correttamente, in caso di caduta e di pendolamento nel vuoto in stato d’incoscienza, benché il lavoratore sia fortunatamente appeso, il tempo medio della sua sopravvivenza è di circa 15 minuti!

Vogliamo parlare dell’elmetto, icona indiscussa della sicurezza? L’uso dell’elmetto non salva la vita (se ti cade un frigorifero addosso a poco serve!), ma preserva il capo da urti e da possibili oggetti contundenti che, in alcuni casi, possono comportare gravi infortuni. Molto spesso i lavoratori accettano questo rischio, ignorando che le contusioni al capo possono provocare la “commozione cerebrale” che tradotto può voler dire perdita di coscienza, pallore, rilassamento muscolare, respirazione debole e superficiale, talvolta vomito. Eppure il diffuso mancato utilizzo non può essere solamente questione di brutte abitudini o di diffidenze. La causa principale è la non percezione del rischio, come quando in auto non si allacciano le cinture di sicurezza o si svolgono sorpassi azzardati; si pensa che l’incidente possa capitare solo agli altri.

La conclusione non può che riguardare la formazione e l’informazione: il datore di lavoro formato e informato, oltre a comprendere meglio le sue responsabilità, che solo intuisce, saprebbe come delegare in maniera corretta e responsabile parte delle sue incombenze di sicurezza. Il lavoratore formato e informato, invece, comprenderebbe meglio le tecniche in continua evoluzione per lavorare in sicurezza.

Ma lo Stato, per mezzo delle leggi e delle sue istituzioni, come influisce nel processo di tutela della salute e sicurezza sul lavoro? Diciamo subito che le leggi ci sono e pure in grande quantità. Purtroppo, alcuni inutili adempimenti formali distolgono l’attenzione dal vero problema.

Pensiamo alle problematiche connesse al lavoro in spazi confinati e/o con sospetto inquinamento: è ormai risaputo che sovente muore non solo il primo lavoratore che accede in questi luoghi di lavoro, ma anche altri due, che nel tentativo di soccorrere il primo collega malcapitato, incontrano anch’essi la morte in quanto non adeguatamente attrezzati e privi delle più elementari conoscenze a riguardo.

Il decreto del presidente della repubblica 14 settembre 2011, n. 177 “Regolamento recante norme per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinanti, a norma dell’articolo 6, comma 8, lettera g), del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81” è praticamente ignorato da molti lavoratori e datori di lavoro, sia per totale mancanza di adeguata informazione, sia a causa di una normativa che prevede adempimenti spesso poco attuabili, con numerosi aspetti poco chiari e con costi inutili evitabili: basterebbe guardare ad altri paesi europei per “copiare” soluzioni più efficienti.

In una recente intervista, l’ex magistrato Raffaele Guariniello esprime, a parere dello scrivente, alcuni condivisibili concetti: “… Abbiamo in materia una legislazione avanzata, ma non basta se poi non la si traduce in azioni quotidiane. Servono risorse, persone e mezzi, anche per controllare che la legge non sia solo sulla carta, diversamente ripeteremo le stesse cose, a ogni tragedia all’infinito. Poi, quando si mette mano alle leggi, non sempre escono chiare come si dovrebbe…”.

E ancora: “…Servirebbero magistrati di procura specializzati: diversamente ogni processo in materia è sempre il primo e si riparte ogni volta da zero in termini di conoscenza del fenomeno e di rapporti con ispettori consulenti…”.

Una collaborazione fattiva fra ordini e collegi professionali, associazioni di categoria e università che promuova il confronto sulla normativa non soltanto dal punto di vista legislativo ma anche e soprattutto tecnico, eviterebbe inutili burocratizzazioni a vantaggio dell’aumento di consapevolezza da parte di tutti di quanto sia importante la salute e sicurezza del lavoro.

ATTIVITA’ LAVORATIVA DISLOCATA E SMART WORKING

di Sergio Vianello

pubblicato su “Il Commerci@lista lavoro e previdenza”, aprile 2017

Lo Smart Working o Lavoro Agile, di cui il legislatore si sta occupando in questo periodo, come si legge anche in un altro articolo di questa rivista, è una modalità di esecuzione del lavoro subordinato che ha indubbiamente dei tratti in comune con alcune delle modalità esistenti, ma al tempo stesso se ne allontana, essendo dotato di caratteristiche che lo rendono unico, più di quanto non dica il titolo del disegno di legge approvato dal Senato, ora all’esame della Camera “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”.

L’attuale dottrina definisce il luogo dove viene svolta la prestazione lavorativa non come un elemento caratterizzante il rapporto di lavoro, ma come solo una modalità. Infatti tra i poteri organizzativi e direttivi del datore di lavoro, rientra la possibilità di destinare il proprio dipendente a svolgere la prestazione di lavoro, secondo le sue esigenze produttive, in un luogo diverso rispetto a quello ordinario, cosi come definito al momento dell’assunzione o nel corso di svolgimento del rapporto di lavoro. Molteplici sono in Italia le tipologie di contratto di lavoro e molteplici sono le modalità di lavoro che presuppongono un luogo di lavoro
delocalizzato rispetto all’organizzazione datoriale. Si pensi al telelavoro, al lavoro a domicilio o a distanza, ma anche solo a quella tipologia di lavoro da svolgere in missione o in trasferta, oppure a quello svolto dai rappresentanti di commercio, o dagli addetti alle manutenzioni presso terzi o addirittura, a quello svolto nei cantieri edili. Tutte queste tipologie di lavoro hanno un denominatore comune, che è quello di “essere svolte in parte all’interno dei locali aziendali ed in parte all’esterno, senza una postazione fissa ed entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla
legge o dalla contrattazione collettiva”
. La vigente legislazione sull’igiene e sicurezza sul lavoro all’art. 62, comma 1, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, ai fini dell’applicazione delle disposizioni del titolo II, definisce così i luoghi di lavoro: “ … si intendono per luoghi di lavoro, unicamente ai fini della applicazione del presente titolo, i luoghi destinati a ospitare posti di lavoro, ubicati all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, nonché ogni altro luogo di pertinenza dell’azienda o dell’unità produttiva accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro.”

I luoghi di lavoro possono essere i più disparati e, di norma, il lavoratore subordinato svolge la sua prestazione là dove è stabilito dal datore di lavoro. Qualunque
sia, il luogo di lavoro, incidendo direttamente sulla tutela della salute del lavoratore, oltre che sulla tutela della persona stessa del lavoratore, non può essere trascurato ai fini della valutazione di idoneità ai sensi della normativa in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81).
Interessante però è l’interpello n. 13 del 24 ottobre 2013 con il quale è stato chiesto al Ministero del lavoro e delle politiche sociali “se per i lavoratori a domicilio, che risultano dipendenti di un’azienda, ma che hanno come luogo di lavoro la propria abitazione, il Datore di Lavoro debba fornire a proprie spese tutta l’informazione, la formazione e l’addestramento previsto per i lavoratori dal D.Lgs. n. 81/08, in particolare la formazione prevista dai recenti accordi Stato- Regioni e la formazione per addetto al primo soccorso e addetto all’antincendio. Inoltre si chiede di sapere se l’abitazione del lavoratore sia da considerarsi a tutti gli effetti un luogo di lavoro, così come definito dal D.Lgs. n. 81/08, e debba pertanto essere oggetto di valutazione dei rischi da parte del datore di lavoro.”
Le indicazioni del Ministero interpellato al riguardo sono state: Il datore di lavoro è tenuto a fornire un’adeguata informazione e formazione nel rispetto di quanto previsto dall’accordo Stato Regioni del 21/12/11 e non anche quella specifica per il primo soccorso e antincendio. Il domicilio non è considerato luogo di lavoro, ai sensi dell’art. 62 del D.Lgs. n. 81/08.

L’interpello segnala che quanto sopra vale nel caso in cui vi sia un sostanziale vincolo di subordinazione tra l’impresa, nella figura del datore di lavoro, e il lavoratore a domicilio. In assenza di questo vincolo, il D.Lgs. 81/2008 sostanzialmente non si applica, se non per quanto concerne l’art. 21 a carico del lavoratore stesso che ricordiamo disciplina le “Disposizioni relative ai componenti dell’impresa familiare di cui all’articolo 230-bis del Codice civile e ai lavoratori autonomi” e che si riporta integralmente:

“1. I componenti dell’impresa familiare di cui all’articolo 230-bis del Codice civile, i lavoratori autonomi che compiono opere o servizi ai sensi dell’articolo 2222 del Codice civile, i coltivatori diretti del fondo, i soci delle società semplici operanti nel settore agricolo, gli artigiani e i piccoli commercianti devono:
a) utilizzare attrezzature di lavoro in conformità alle disposizioni di cui al Titolo III;
b) munirsi di dispositivi di protezione individuale ed utilizzarli conformemente alle disposizioni di cui al Titolo III;
c) munirsi di apposita tessera di riconoscimento corredata di fotografia, contenente le proprie generalità, qualora effettuino la loro prestazione in un luogo di lavoro nel quale si svolgano attività in regime di appalto o subappalto. I soggetti di cui al comma 1, relativamente ai rischi propri delle attività svolte e con oneri a proprio carico hanno facoltà di:
a) beneficiare della sorveglianza sanitaria secondo le previsioni di cui all’articolo 41, fermi restando gli obblighi previsti da norme speciali;
b) partecipare a corsi di formazione specifici in materia di salute e sicurezza sul lavoro, incentrati sui rischi propri delle attività svolte, secondo le previsioni di cui all’articolo 37, fermi restando gli obblighi previsti da norme speciali”.

Tutti i lavoratori subordinati e quindi anche quelli che prestano la propria opera in un luogo diverso dalla sede del datore di lavoro, devono essere informati circa le politiche aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro e devono applicare correttamente le direttive aziendali di sicurezza. Al fine di verificare la corretta attuazione della normativa in materia di tutela della salute e sicurezza da parte del lavoratore a distanza, il datore di lavoro, le rappresentanze dei lavoratori e le autorità competenti hanno accesso al luogo in cui viene svolto il lavoro nei limiti della normativa nazionale e dei contratti collettivi, dovendo tale accesso essere subordinato al preavviso e al consenso del lavoratore qualora la prestazione sia svolta presso il suo domicilio. Il lavoratore a distanza può chiedere ispezioni. Il datore di lavoro garantisce l’adozione di misure dirette a prevenire l’isolamento del lavoratore a distanza rispetto agli altri lavoratori interni all’azienda, permettendogli di incontrarsi con i colleghi e di accedere alle informazioni dell’azienda, nel rispetto di regolamenti o accordi aziendali. A tutti i lavoratori subordinati che effettuano una prestazione continuativa di lavoro con una tecnologia che consente al dipendente il collegamento delocalizzato con l’organizzazione del datore di lavoro, sono applicabili le disposizioni di cui al Titolo VII del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 e s.m.i. (Attrezzature
munite di videoterminali), indipendentemente dall’ambito in cui si svolge la prestazione stessa. Nell’ipotesi in cui il datore di lavoro fornisca attrezzature proprie, o per il tramite di terzi, tali attrezzature devono essere conformi alle disposizioni di cui al Titolo III, che definisce minuziosamente quale debba essere l’uso delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuale.

Esaminando altri casi in cui il lavoratore venga inviato a svolgere la propria attività lavorativa in un luogo differente rispetto a quello in cui essa viene abitualmente prestata, si può rilevare che, ad esempio, l’Inail riconosce al lavoratore che si infortuna in trasferta il diritto all’indennizzo, in quanto è sempre considerata occasione di lavoro la trasferta o la missione lavorativa; infatti: “anche gli infortuni occorsi durante gli spostamenti effettuati dal lavoratore per recarsi dall’albergo al luogo in cui deve essere svolta la prestazione lavorativa e viceversa devono essere trattati come infortuni in attualità di lavoro e non come infortuni in itinere”. Per quanto riguarda gli infortuni occorsi all’interno della stanza d’albergo in cui il lavoratore si trova a dimorare temporaneamente o nel tragitto compiuto per recarsi dalla stessa stanza d’albergo al luogo di temporanea occupazione, occorre rilevare che esso non è equiparabile a quello avvenuto presso la
privata abitazione o partendo dalla stessa, per il quale la Corte di Cassazione ha escluso l’indennizzo, in quanto i rischi del percorso che collega l’abitazione al luogo di lavoro abituale, dipendono anche dalla scelta del lavoratore riguardo al luogo dove stabilire il centro dei propri interessi personali e familiari, per cui detto percorso non è determinato da esigenze lavorative imposte dal datore di lavoro, ma dipende anche da scelte di vita del lavoratore. Diverso è il caso del lavoratore in missione e/o trasferta poiché, in tale situazione, il tragitto dal luogo in cui si trova l’abitazione del lavoratore a quello in cui, durante la missione, egli deve espletare la prestazione lavorativa, non è frutto di una libera scelta del lavoratore ma è imposto dal datore di lavoro.

L’Inail chiarisce che le uniche due cause di esclusione della indennizzabilità di un infortunio occorso a un lavoratore in missione e/o trasferta si possono rinvenire:
a) nel caso in cui l’evento si verifichi nel corso dello svolgimento di un’attività che non ha alcun legame funzionale con la prestazione lavorativa o con le esigenze
lavorative dettate dal datore di lavoro;
b) nel caso di rischio elettivo, cioè qualora l’evento sia riconducibile a scelte personali del lavoratore, irragionevoli e prive di alcun collegamento con la prestazione lavorativa tali da esporlo a un rischio determinato esclusivamente da tali scelte. Secondo la definizione ormai consolidata in giurisprudenza, per rischio elettivo si intende “quello che, estraneo e non attinente alla attività lavorativa, sia dovuto ad una scelta arbitraria del lavoratore, il quale crei ed affronti volutamente, in base a ragioni o ad impulsi personali, una situazione diversa da quella inerente alla attività lavorativa, ponendo così in essere una causa interruttiva di ogni nesso tra lavoro, rischio ed evento” (Cassazione 22.2.2012, n. 2642).

Nel disegno di legge C. 4135 approvato dal Senato della Repubblica e trasmesso il 3 novembre 2016 all’esame della Camera dei Deputati sul Lavoro, citato in precedenza, viene definito Lavoro Agile: “… la modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.” L’art. 19 dello stesso disegno di legge, definisce così gli obblighi del Datore di Lavoro:

1)Il datore di lavoro garantisce la salute e la sicurezza del lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile e a tal fine consegna al lavoratore e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, con cadenza almeno annuale, un’informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro.

2)Il lavoratore è tenuto a cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro per fronteggiare i rischi connessi all’esecuzione della prestazione all’esterno dei locali aziendali.

Come si può notare, sul fronte dell’igiene e sicurezza sul lavoro non sono previste sostanziali modifiche, infatti il datore di lavoro, valuterà nel proprio obbligatorio documento di valutazione dei rischi (DVR), i rischi specifici relativi all’attività che il lavoratore agile andrà a svolgere, rispettando gli obblighi derivanti dall’art. 20 del D.Lgs 81/08 con particolare riferimento al comma 2 lettera a) che stabilisce che: “i lavoratori devono in particolare contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.”. Tenuto conto dell’impossibilità di controllare i luoghi di lavoro nei quali viene resa l’attività lavorativa, che il lavoratore può cambiare a suo piacimento in qualsiasi momento, come può il datore di lavoro vigilare sull’attività del lavoratore se non è nemmeno in grado di sapere dove lo stesso stia lavorando? Potrebbe essere al parco o a
casa di un amico con il computer portatile! Nello smart working sarà fondamentale la responsabilizzazione del lavoratore, il quale deve assumere il ruolo di preposto di sé stesso, gestendo sì la propria giornata al fine di raggiungere gli obiettivi richiesti, ma in sicurezza e secondo le indicazioni dettate dalla normativa e soprattutto con il buon senso.