INFORTUNIO SUL LAVORO, CON PROGNOSI SUPERIORE A QUARANTA GIORNI

Di seguito è evidenziato il caso in cui un lavoratore, a seguito di un infortunio sul lavoro, abbia la “… incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni. “

Avuta la notizia dell’infortunio ad esempio dal pronto soccorso o a seguito di querela per infortunio sul lavoro,  la Polizia Giudiziaria[1] è obbligata ad intervenire nel luogo ove è accaduto l’incidente per acquisire le prime sommarie informazioni e redigendo un verbale di sopralluogo denominato S.I.T. (Sommarie Informazioni Testimoniali).

In una prima fase verificherà l’anagrafica della ditta dell’infortunato e il relativo organigramma verificando tutti gli adempimenti di legge (DVR, nomina RSPP e MC, deleghe, nomine, formazione, informazione, …); poi procederà all’identificazione dell’infortunato (dati anagrafici, mansioni, esperienze, formazione,…).     

Successivamente, ricostruirà le dinamiche, le circostanze e le modalità dell’infortunio, evidenziando eventuali articoli di legge e/o norme tecniche violate, individuando i possibili responsabili.

Il verbale dovrà essere obbligatoriamente inviato all’autorità giudiziaria (Pubblico Ministero), che nel corso delle indagini preliminari, con la collaborazione della Polizia Giudiziaria, acquisita la notizia di reato[2], svolge attività di ricerca delle prove necessarie ai fini dell’eventuale esercizio dell’Azione penale.

Al termine delle indagini preliminari il PM scioglierà le riserve e in alternativa:

  • potrà esercitare l’azione penale rinviando a giudizio l’imputato. È in questo preciso momento che  avviene l’iscrizione nel certificato dei carichi pendenti.
  • o chiedere l’archiviazione, qualora ritenga che il fatto non sussista (in un cero qual modo smentendo quanto ritenuto accertato nelle prime fasi d’indagini).

Durante le indagini i difensori della persona offesa e di quelli dell’indagato possono interloquire con il Pubblico Ministero, anche depositando memorie. Il difensore della persona offesa supporta le indagini del Pubblico Ministero svolgendo un ruolo quasi di affiancamento.

La fase di dibattimento è il momento in cui si forma la prova nel contraddittorio tra le parti (PM, Parte Civile e Imputato) di fronte ad un giudice terzo e imparziale: tribunale (monocratico o collegiale) o Corte d’assise. Accedono al dibattimento gli imputati che non abbiano chiesto un rito alternativo (patteggiamento[3]) o non siano stati prosciolti in udienza preliminare[4].


[1] Quasi sempre l’ASL ma ai sensi dell’art 457 del Codice di Procedura Penale anche gli Agenti di P.S., della Polizia Municipale, dei Carabinieri, dei Vigili del Fuoco, della Guardia di Finanza e gli ispettori INAIL

[2] L’informativa di PG (art. 347 Cpp), è una segnalazione con la quale la PG, acquisita la notizia di reato, comunica al PM in forma scritta e senza ritardo gli elementi essenziali del fatto e gli altri elementi sino a quel momento raccolti, indicando le fonti di prova e le attività compiute. In gergo, spesso viene abbreviata con CNR, che sta per Comunicazione della Notizia di Reato

[3]Imputato e Pubblico Ministero concordano una pena e se il Giudice la ritiene congrua la ratifica con sentenza.

[4] Può essere necessaria una indagine preliminare tenuta dal GUP che è un magistrato che valuta l’idoneità degli elementi a sostenere l’accusa in giudizio nel contraddittorio delle parti (PM, eventuale parte civile, e difesa dell’imputato ma l’udienza è tenuta in camera di consiglio.

OBBLIGHI DI SICUREZZA A CARICO DELL’AMMINISTRATORE DI CONDOMINIO

La legge 11 dicembre 2012 n. 220, ribadisce i principi per cui nell’unità di proprietà esclusiva, il condomino non può eseguire opere che rechino danno alle parti comuni o che pregiudichino la stabilità, la sicurezza o il decoro architettonico dell’edificio.

Detta normativa aumenta i casi di responsabilità da custodia e definisce compiutamente l’Amministratore quale soggetto giuridico garante della sicurezza del condominio, inteso luogo di vita e di lavoro

L’Amministratore di condomino – ai sensi dell’art. 1130, primo comma, n. 4 cod. civ. – è titolare di un obbligo di garanzia in relazione alla conservazione delle parti comuni dell’edificio e che, con riguardo al reato colposo per condotta omissiva, la sua responsabilità va considerata e risolta nell’ambito dell’art. 40 cod. pen., secondo cui  «non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo», l’affermazione della colpevolezza di tale soggetto presuppone sia l’individuazione della condotta in concreto esigibile in relazione alla predetta posizione di garanzia, sia l’accertamento che, una volta posta in essere tale condotta, l’evento lesivo non si sarebbe verificato.

Per quanto attiene la sicurezza degli abitanti dello stabile, la violazione di questi obblighi può essere fonte sia di responsabilità civile (di natura contrattuale nei confronti del condominio, di natura extracontrattuale nei confronti dei terzi danneggiati), sia di responsabilità penale nel caso dell’insorgere di una situazione di pericolo, ad esempio ex art. 677 c.p. –  omissione di lavori in edifici o costruzioni che minacciano rovina – e anche se mentre una parte della Giurisprudenza ritiene che tale responsabilità ricada prioritariamente sull’Amministratore (Cass. pen., sez. I, 20 novembre 1996, Brizzi ed altro), altra parte della Giurisprudenza, più rigorosamente, ritiene che nel caso di mancata formazione della volontà assembleare, che consenta all’amministratore di adoperarsi al riguardo, sussista a carico del singolo condomino l’obbligo giuridico di rimuovere la situazione pericolosa, indipendentemente dall’attribuibilità al medesimo dell’origine della stessa (Cass. pen., sez. I, 13 aprile 2001, De Marco) o del verificarsi di eventi di danno (ad es. quello previsto dal combinato disposto degli artt. 434, 449 c.p. : crollo colposo di costruzioni).

Per quanto attiene alla sicurezza della popolazione residente e dell’ambiente, sarà attribuibile all’Amministratore il dovere di rispetto della loro salute ed integrità; ciò gli compete in base all’obbligo-principio del neminem laedere di cui all’art. 2043 del c.c..

Quanto sopra è peraltro ribadito dall’’art. 1130 c.c., che sancisce la legittimità dell’Amministratore a porre in essere, senza la preventiva autorizzazione dell’assemblea, gli “atti conservativi” miranti a tutelare l’integrità delle cose comuni (quando l’edificio sia minacciato dal punto di vista della stabilità, della sicurezza e del decoro architettonico) e ad erogare le spese per l’ordinaria manutenzione delle parti comuni e per l’esercizio dei servizi comuni. In caso d’urgenza, può anche ordinare lavori di manutenzione straordinaria con unico obbligo di riferire alla prima assemblea.

La sopra menzionata legge 11 dicembre 2012 n. 220 di riforma del condominio opera diretto riferimento alla problematica della sicurezza degli edifici e dei suoi abitanti in un numero notevole di norme.

L’art. 5, che riforma l’art. 1120 del codice civile, al comma 1 n. 2) sostiene che nel novero delle innovazioni vi sono anche: «1) le opere e gli interventi volti a migliorare la sicurezza e la salubrità degli edifici e degli impianti». L’art. 6, che riforma l’art. 1122, ora rubricato come «Opere su parti di proprietà o uso individuale» afferma: «Nell’unità immobiliare di sua proprietà ovvero nelle parti normalmente destinate all’uso comune, che siano state attribuite in proprietà o destinate all’uso individuale, il condomino non può eseguire opere che rechino danno alle parti comuni ovvero determinino pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell’edificio. In ogni caso è data preventiva notizia all’amministratore che ne riferisce all’assemblea».

Gli artt. 9 e 10, che sostituiscono gli artt. 1129 e 1130 del codice civile, affermano che è una grave irregolarità, la quale legittima i condomini a chiedere la convocazione dell’assemblea per fare cessare la violazione e revocare il mandato all’amministratore, l’omessa tenuta da parte di quest’ultimo del registro di anagrafe patrimoniale contenente ogni dato relativo alle condizioni di sicurezza. Inoltre sempre l’art. 9 afferma: «Alla cessazione dell’incarico l’amministratore è tenuto alla consegna di tutta la documentazione in suo possesso afferente al condominio e ai singoli condomini e a eseguire le attività urgenti al fine di evitare pregiudizi agli interessi comuni senza diritto a ulteriori compensi».

La motivazione per la quale l’Amministratore deve essere spinto a richiedere la verifica di cui si parla deriva inoltre dalla sentenza della Cassazione Penale, Sezione III, 17 giugno 2009 n. 25176, che ha specificato che in vista dell’esecuzione di un’opera che richiede competenze specifiche tra le quali il rispetto di regole tecniche,  se il committente si rivolge ad un esperto abilitato, è a quest’ultimo che incombe l’onere dell’osservanza di quelle disposizioni peculiari dell’arte e non è esigibile, da parte del committente, un dovere di vigilanza specifico circa l’osservanza di quelle normative proprie dell’esercizio di un’attività specialistica, per la quale, appunto, il committente ha dovuto affidare il lavoro ad un esperto

EDILIZIA, UN’ATTIVITA’ LASCIATA ALLO SBANDO

I rischi e le possibili soluzioni a tutela dei lavoratori di un settore tradizionalmente caratterizzato da un alto indice infortunistico

Di Sergio Vianello

Il contributo intende offrire una panoramica sui rischi connessi all’attività lavorativa in un settore, quello dell’edilizia, caratterizzato storicamente da un’elevata presenza di malattie professionali e da un alto indice infortunistico.

Alto indice infortunistico

L’edilizia, già di per sé si caratterizza come un ambito con un’elevata presenza di malattie professionali e con il più alto indice infortunistico. Spesso di casi mortali. Una tendenza che, pur decrescendo, non ha smesso di essere rilevante: si è passati dai 109 decessi del 2013 agli 80 del 2017 (dati INAIL 2018).

Basti pensare al rischio derivante dal lavoro in quota. Le cadute dall’alto rappresentano, infatti, un terzo degli infortuni nell’edilizia; nello specifico da tetti o coperture, da scale o ponteggi, da parti in quota di un edificio (balconi, terrazzi etc.) e da macchine da sollevamento.

Per lavorare su ponteggi o tetti è richiesta non solo esperienza e prudenza, ma anche una condizione fisicopsichica ottimale; il che significa avere un corpo allenato, agile, forte, libero da dolori o da limitazioni dovute al naturale passare degli anni o a patologie sopravvenute nel tempo.

Un comportamento che dovrebbe riguardare innanzitutto il buonsenso e la logica e che, tuttavia, non viene quasi mai messo in pratica o rispettato. Ogni giorno, in cantieri di diverse dimensioni, lavoratori anziani mettono a repentaglio la propria incolumità continuando a svolgere mansioni che dovrebbero essere appannaggio solo di individui più giovani.

Invecchiamento della forza lavoro

Qual è la ragione del perdurare di questo continuo stato di rischio? Non esistono leggi o norme che tutelino queste categorie di lavoratori, magari agevolandone il pensionamento?

Tra le undici categorie professionali di lavoratori dipendenti definite dalla normativa, c’è quella dell’edilizia e della manutenzione degli edifici. Infatti, a seguito del D.lgs. 4/2019, le categorie di lavoratori con attività gravose hanno facoltà di chiedere l’APE sociale (“se hanno raggiunto il sessantatreesimo anno di età unitamente ad almeno 30 o 36 anni di contributi”), oppure la possibilità di ritirarsi con la pensione anticipata al raggiungimento di 41 anni di contributi a prescindere dall’età anagrafica a condizione, pero, di vantare almeno 12 mesi di lavoro effettivo prima del diciannovesimo anno di età.

Vi sono tuttavia due importanti discriminanti.

La prima è che l’accesso ai benefici sopra elencati resta ancorato a un vincolo di bilancio annualmente stabilito; ovvero: se vi sono le risorse finanziarie è possibile, altrimenti vi è il posticipo della data di decorrenza del beneficio.

La seconda è che l’accesso a queste forme di prepensionamento resta valido solo per i lavoratori dipendenti.

Per gli autonomi e gli artigiani, invece, non è previsto nulla di simile. E questa limitazione, in un certo senso, aggrava il problema considerando che nei cantieri lavorano in percentuale preponderante proprio gli autonomi.

Idraulici, muratori, manovali, elettricisti, serramentisti, gessatori e altri: sono molti i professionisti non inquadrati come dipendenti che si alternano in un cantiere durante le diverse fasi della costruzione: un esercito di persone spesso privo di tutele, senza obbligo di formazione e sorveglianza sanitaria, carente di informazione e addestramento e che lavora in subappalto o talvolta senza un regolare contratto, magari in nero.

Lavoratori autonomi

Trattasi di lavoratori – proprietari di ditte individuali o detentori di partite IVA – che non dispongono di paracadute sociali e supporti nel caso di malattia temporanea o inidoneità a certe mansioni, derivante da una delle numerose e probabili malattie professionali che possono colpire con l’avanzare dell’età.

Individui “costretti” a lavorare anche in caso di difficoltà e non perfetta forma fisica, con tutte le conseguenze negative
che ciò può comportare.

Non solo, in una tale situazione va aggiunto un ulteriore elemento di criticità.

Nessun lavoratore “edile” può in nessun caso usufruire delle agevolazioni pensionistiche previste dal D.lgs 67/2011 per quei lavori definiti “usuranti”, non rientrando – in maniera sorprendente – in nessuna delle tipologie previste dalla legge.

Possibili soluzioni

Quindi, quale soluzione per rendere più tutelato chi lavora nell’edilizia? Mutare completamente la situazione in tempi brevi è utopistico. Tuttavia, si possono mettere in pratica alcuni correttivi in grado di migliorare la condizione di chi vive di edilizia.

Il primo è, per l’appunto, far rientrare il lavoratore fra coloro che svolgono occupazioni “usuranti”.

Il secondo potrebbe riguardare l’obbligatorietà della formazione, specie in materia di sicurezza e sorveglianza sanitaria.

Il terzo – a parere dello scrivente il più importante – potrebbe riferirsi a una professionalizzazione obbligatoria di coloro che in un cantiere operano. Cosa che oggi purtroppo non avviene: chiunque, senza la minima preparazione o conoscenza tecnica, può aprire una ditta edile e proporsi sul mercato.

Infatti, basta recarsi da un notaio con un oggetto sociale magari molto ampio che prevede la possibilità di fare ponti, grandi strutture, autostrade, ecc., e immediatamente è possibile aprire una partita IVA e operare sul mercato !!!

Si potrebbe a questo punto prendere spunto dalla normativa adottata per tutte le ditte impiantistiche, per le quali per operare e rilasciare la famosa “Dichiarazione di Conformità” è indispensabile ottenere dalla C.C.I.A.A. il riconoscimento delle pregresse esperienze e professionalità1.

Non dico che questa soluzione sia la panacea delle problematiche sopra esposte (tante ditte impiantistiche, ad esempio gli elettricisti, gli antennisti, ecc., operano lo stesso senza questo fondamentale requisito in barba alla normativa e sfruttando “l’ignoranza” del cliente che giustappunto “ignora” !!!), ma sicuramente si limiterebbe l’improvvisazione che molto spesso causa infortuni evitabili solo con la consapevolezza e conoscenza di questa difficile attività, spesso frutto di esperienze tramandate da padre in figlio.

MACCHIE E MUFFA SU PARETI, SOFFITTI, IN APPARTAMENTO

Escludendo i casi di umidità da risalita e quelli dovuta a episodi di infiltrazioni d’acqua meteorica, una ventilazione assente o inadeguata, specie nei freddi mesi invernali, favorisce la concentrazione di umidità nell’aria e la creazione di condizioni favorevoli per la formazione di muffe.

A ciò si aggiunge anche l’utilizzo, in fase di ristrutturazione o nelle nuove costruzioni, di materiali isolanti sempre più performanti e l’installazione di porte e finestre a chiusura ermetica. Se da un lato si tratta di strumenti efficaci per migliorare il comfort di abitazioni o uffici, limitando la dispersione del calore in inverno e consentendo il mantenimento di temperature fresche nei periodi più caldi dell’anno, dall’altro, senza la presenza di ventilazione naturale (apertura delle finestre o delle porte per facilitare il circolo dell’aria) o meccanica, la comparsa di muffe è inevitabile. Con rischi, anche gravi per la salute.

E se dopo aver cambiato l’aria le muffe non scompaiono?

Tentare di rimuoverle, senza prima indagare le cause del fenomeno è inutile, poiché se le condizioni di ventilazione resteranno immutate, il problema si riproporrà. Occorre piuttosto rivolgersi a un esperto, che identifichi le cause, le responsabilità e ovviamente le soluzioni migliori per la scomparsa definitiva del problema.

In questo modo non solo la questione sarà risolta, ma, in caso di lavori eseguiti non a regola d’arte, sarà anche possibile ottenere un risarcimento per i danni subiti.

CADUTE DAI TETTI TRAGEDIE ANNUNCIATE

Mancato rispetto delle regole, superficialità, incompetenza, impreparazione e trascuratezza.

È questo il mix di ingredienti al quale è dovuta gran parte degli incidenti mortali sul lavoro. Uno scenario tragicamente “familiare” per chi opera in quota, lavorando su tetti e coperture di edifici costruiti e in costruzione. Tra il 2008 e il 2012, i dati raccolti dall’Inail hanno registrato una media di due vittime a settimana – cioè 535 persone – decedute a seguito delle lesioni riportate dopo una caduta. Nel 2019 gli incidenti mortali in quota hanno raggiunto il 32% degli oltre 1000 rilevati. 

Ma, posto che queste vite potevano essere risparmiate, di chi è la responsabilità?

La legge è chiara: in caso di incidente con infortunio o decesso (titolo IV campo I del 81/2008 e articolo 26 del TUS), l’amministratore di condominio (o in mancanza di esso chi ne fa le veci), quale responsabile, è chiamato a rispondere in sede penale di lesioni o addirittura omicidio colposo.

 Ciò significa che se stiamo valutando di effettuare degli interventi sui tetti di edifici che amministriamo o di nostra proprietà, siano essi condomini, villette o case vacanze, dobbiamo prima preoccuparci che vi siano le condizioni perché i lavoratori possano intervenire in totale sicurezza. 

Da dove cominciare? Il primo passo è quello di rivolgersi ad un professionista, che accerti che vi siano “linee vita”, sistemi di ancoraggio anti caduta, che la manutenzione dell’area interessata sia stata fatta con regolarità e che l’accesso al tetto sia regolamentato e consentito solo a personale autorizzato. In secondo luogo, è doveroso coinvolgere solo operatori qualificati, e non – per risparmiare – personale inesperto o non specializzato. 

Terzo ma non per importanza, è fondamentale che i soggetti coinvolti quali responsabili della sicurezza, siano al corrente delle possibili conseguenze di una caduta o del rimanere sospesi nel vuoto e abbiano le conoscenze necessarie per intervenire tempestivamente con manovre adeguate e chiamando i soccorsi. 

Per costruire o manutenere opere dove in gioco vi è la salvaguardia delle persone è necessario affidarsi a figure esperte, competenti e preparate che appartengono a ordini professionali in grado di garantire per loro. E in questo senso, il ruolo di ingegneri e architetti è insostituibile. 

Un concetto ribadito con decisione dall’articolo 36 del dpr 380/2001 quando dice: “ogni opera la cui stabilità possa comunque interessare l’incolumità delle persone, deve essere costruita in base ad un progetto esecutivo firmato da un ingegnere o da un architetto, comunque iscritto nell’albo, nei limiti delle proprie competenze stabilite dalle leggi sugli ordini e collegi professionali”.

Lavorare in quota comporta di per sé molti rischi, ma questi possono essere evitati o contenuti osservando le norme e prendendo le precauzioni necessarie. Prevenire tali incidenti mortali è possibile oltre che moralmente obbligatorio.

TETTO. RENDERLO SICURO UTILIZZANDO IL SISMABONUS

Quando si decide di mettere in sicurezza un edificio per preservare la struttura, le persone e i beni contenuti al suo interno dai danni di un possibile sisma, difficilmente si pensa al tetto come ad uno tra i primi elementi a cui occorre dedicare attenzione. Eppure, questa struttura, insieme ai solai sottostanti, è tra le parti più sollecitate di un immobile.

Piogge, vento e manifestazioni meteorologiche, talvolta anche di straordinaria intensità, portano in breve tempo all’usura di materiali e strutture. Il processo di decadimento dei materiali poi accelera con il passare degli anni, aumentando la probabilità di incidenti in caso di mancata manutenzione. Si tratta di uno scenario tutt’altro che inusuale considerato che il 60% degli oltre 12milioni di edifici italiani è stato costruito prima del 1980 (ISTAT).

Quando poi si verifica un sisma, l’oscillazione dovuta alle scosse causa frequentemente il collasso di tetto e solai, questi gravando sulla struttura sottostante, portano al crollo dell’intera costruzione.

Considerati tali elementi, siamo certi di voler attendere oltre e di non voler piuttosto verificare subito che il nostro tetto sia in buone condizioni?

Sarebbe una decisione tutt’altro che ragionevole. Soprattutto sapendo che gli interventi di messa in sicurezza di tetti e solai rientrano tra quelli finanziabili attraverso l’operazione del Sismabonus 110% e che questa è stata prorogata fino al 30 giugno 2022. Un’occasione unica, grazie alla quale si ha la possibilità di detrarre nella dichiarazione dei redditi, tra il 50 e l’85% delle spese sostenute su un ammontare non superiore a 96 mila euro.

Il primo passo da compiere per usufruirne ed essere sicuri di ottenere il rimborso è quello di consultare un tecnico esperto, che proceda con una valutazione puntuale degli interventi.